Il dolore della vita, la perdita della morte. Nel mezzo le donne, la loro storia in un divenire inarrestabile: ecco la nostra intervista a Lamante, fresca di pubblicazione dell’album “In memoria di“
Un viaggio tra le stanze della sua vita, delle sue memorie. Per non perderla mai, quella memoria, quella luce che la rende unica e uguale a nessun altro. Lamante arriva sul mercato discografico, o forse sarebbe meglio dire “irrompe” con un disco da scoprire, vivere, osservare e assaggiare. “In memoria di“, questo il titolo del progetto, fuori per Artist First e prodotto insieme a Taketo Gohara e caratterizzato da undici tracce molto intense e ruggenti. Abbiamo spostato la lente d’ingrandimento di questo disco parlandone insieme alla sua stessa ideatrice, Lamante, in una speciale intervista.
Sappiamo tutti che la curiosità uccise il gatto, ma Lamante da dove nasce? Da dove viene il tuo nome d’arte?
Lamante nasce per le difficoltà che portano il mio nome e cognome. Mi chiamo Giorgia, ed una cantante con questo nome c’è già, direi abbastanza rappresentativa, e il mio cognome Pietribiasi, difficile da pronunciare sia per i dittonghi, sia per il passato che si porta dietro. Così, ragionando su cosa è per me l’amore e lo stare al mondo, è nato Lamante, senza apostrofo, tutto insieme, come il dolore e l’amore nei miei pezzi, la vita e la morte. Inoltre la parola tradire è fondamentale nel vocabolario di Lamante perché ha un doppio significato, uno a noi noto e negativo, e l’altro quello nascosto, etimologico, che vuol dire consegna, concessione di noi o di qualcosa a qualcun altro, si avvicina molto al significato di tradizione, altra parola a me cara.
Nella copertina di “In memoria di” troviamo una piccola Giorgia di nemmeno sei anni. Cosa diresti a quella piccola bambina e cosa lei direbbe a te dopo aver ascoltato il tuo “manifesto”?
Le direi “Cara piccola Giorgia tutto il lavoro che hai fatto per 25 anni della tua vita di conservare e proteggere una memoria, la tua memoria famigliare, è stato spazzato via da te stessa”. Penso che la piccola Giorgia potrebbe rispondermi “grazie e vaffanculo.”
In pezzi come “Non chiamarmi bella“, “Rossetto” e “Ultimo piano” racconti di cosa significhi essere donna, il rapporto con il corpo, col sesso ma anche con l’amore. Interessante come trapeli questo aspetto, il legame col sesso, ma anche l’emancipazione, la distanza dagli stereotipi della donna in gonnellina. Quanto pensi sia importante sensibilizzare l’argomento sesso, corpo e femminilità, soprattutto per una generazione in continua evoluzione?
Come avevo scritto nell’articolo “Lamante ha tradito i suoi antenati”, uscito per Rockit, il mio essere donna, nella musica che abita il mio corpo, è a posteriori, non a priori, di quello che poi esce all’esterno. Il mio essere donna, il rapporto con il mio corpo e il sesso è solo uno dei tanti porti in cui la mia scrittura approda, perché la sento una necessità da non poter contenere. I corpi di noi donne portano una violenza che è storica, millenaria e questo in un qualche modo ci collega tutte. La narrazione di questo aspetto, nei media come in tante forme d’arte è quasi sempre stata filtrata da corpi maschili, vittimizzando e indebolendo la figura della donna. È importante riuscire a costruire una controparte, questa violenza millenaria non ci ha solo rese fragili ma anche forti e a volte arrabbiate.
Quando ho ascoltato l’album nella mia testa sono passati mille scenari diversi, ma tutti legati da uno stesso colore. Quale pensi possa essere il colore testimone di “In memoria di”.
Immagino che per te sia il rosso vero? Io penso ci sia un po’ di rosso, un po’ di bianco e un po’ di nero, sono i colori della cover dell’album e del video ufficiale di “Non chiamarmi bella”. Abbiamo il bianco di una purezza bambina, quello che c’era prima di quella foto che ora è la copertina dell’album, il nero che è la morte, la perdita, ciò che non so, che non posso afferrare e il rosso che è l’amore, la violenza dell’amore, di essere stata quella bambina che non sono più.
Mi sembra ovvio che il rapporto con la tua terra abbia influito sulla stesura di questi “25 anni” di vita, si percepisce un legame viscerale, ma Giorgia in realtà ha mai pensato di scappare da casa sua, di dimenticarla perché faceva troppo male? Ha mai detto “via il dente, via il dolore”?
Sono scappata tante volte nella mia vita, ma vedi, io sono convinta che dove si nasce, si muore. Io tendo ad essere un albero, un giardino, come un eremita. Riuscire a perdere il superfluo, la necessità, quello che si desidera e si vuole. Se un albero avesse bisogno di qualcosa si sposterebbe no? E invece rimane li dove è nato, resiliente. È vero, le sue radici spostano la terra, camminano nel sottosuolo e le foglie e i rami seguono la luce ma l’albero nel suo complesso rimane li dove è nato.
Tante volte ho provato a ricominciare da capo, ad andarmene pensandomi nuova. Non c’è una soluzione al nostro passato perché appunto è passato. Ci si può ricongiungere scegliendo anche la strada della distruzione. Io sono tornata a Schio dopo anni perché sentivo che avevo dei conti in sospeso con quel luogo. Tutto il mio album è stato scritto nella città dove sono nata, non a caso. Siamo abituati a non soffrire e a non accettare di provare dolore, nascondiamo la negatività. A volte quel dente deve essere tolto, ma con consapevolezza. Non vale la pena recidere se prima non si è vissuto il dolore.
Con “L’ultimo piano”, brano presentato a Musicultura 2023, Lamante si spoglia e ci catapulta nella sua prima volta. Com’è stato spogliarsi emotivamente su un palco così importante? Cosa pensi di aver lasciato ad un contest prestigioso come quello di Musicultura?
Posso dirti cosa Musicultura ha lasciato a me. È stata la prima volta che ho potuto confrontarmi con un palco così grande, con una produzione, dei professionisti, la televisione, ma comunque in un luogo dove c’era la musica e solo lei al centro. È stato formativo. Amo il fatto che per i due anni prima la commissione di Musicultura avesse rifiutato la mia candidatura. Hanno avuto un’attenzione e una cura per la mia persona e per la mia arte ancora acerba a quel tempo, e non è da tutti essere persone così nell’ambiente musicale.
Il mio produttore me lo dice sempre “non c’è fretta” ed è un bene ricordarselo. È la pazienza una delle caratteristiche principali che una persona che ha a che fare con la creatività deve avere. Per due anni ho ricevuto un documento con tutte le motivazioni per cui non mi avevano accettato al concorso, senza filtri, critici, provocatori, la trovo una cosa bellissima. Io ho preso tutto quello che mi avevano detto, l’ho fatto mio e sono cresciuta.
“Come volevi essere” apre il tuo ultimo lavoro, in un passaggio citi “se c’è un modo di baciarsi senza crescere”, dove sembra trapelare la voglia di restare bambini per sempre, spensierati, senza responsabilità. Ora la Giorgia di 25 anni, donna matura ed emancipata, è come voleva essere, oppure ha ancora da rimproverarsi qualcosa?
Giorgia di 25 non si sente ne matura ne emancipata. Emancipata da chi? Da cosa? Leonardo Caffo, uno tra i miei filosofi preferiti, nel libro “Quattro capanne o della semplicità” ragiona sul concetto di libertà occidentale che avviene solo attraverso l’annullamento delle responsabilità e all’indipendenza totale dagli altri. Penso sia la forma di prigione più grande per l’individuo. Io sto imparando per la prima volta ad abbandonarmi agli altri, a fidarmi e a concedermi. Per molti di noi questo è il contrario di emancipazione e maturità.
Per anni ho cercato di raggiungere un’idea che avevo di me e di come volevo essere, ma è l’idea che abbiamo di noi stessi che per assurdo ci allontana dalla nostra vera natura. È un circolo in cui ricado spesso, soprattutto per noi “addetti” alla musica che per forza di cose dobbiamo essere categorizzati ed etichettati, e come un automatismo alla fine poi ci capita di farlo anche noi stessi. A volte mi rimprovero perché con fatica lascio andare, più che le persone, i ricordi, appunto la memoria. Vorrei avere la forza di poter lasciare andare tutto per sentirmi. Questo mi succede spesso dopo aver finito di fare l’amore, sono sul letto e la mia testa dice “ma allora c’è qualcuno che abita dentro di me!”, mi piacerebbe che succedesse più spesso.
Le influenze musicali si percepiscono fin dal primo ascolto, il folk si contamina con la memoria e si trasforma in un grido di ribellione. Immagino un po’ una ragazza incazzata col mondo, su un autobus di ritorno della piccola Schio, con la musica a palla nelle sue cuffiette. Quali artisti, ma soprattutto quali brani, non sono mai mancati in quelle cuffiette?
Poco tempo fa camminavo nella mia Schio proprio con le cuffiette ed un signore mi ha fermato per chiedermi perché fossi così incazzata. Gli ho risposto che era semplicemente la mia faccia. A parte gli scherzi, in questi anni di scrittura dell’album è stato molto difficile per me ascoltarla la musica. Il mio orecchio nelle fasi di creazione diventa analitico e sciacallo ed io cerco di portare massimo rispetto alla musica e agli artisti che la fanno, quindi in quei momenti prediligo il silenzio o Rai Radio3.
Nei brevi momenti in cui sono riuscita ad ascoltare, mi hanno accompagnato i Noir Desire, la loro “Le vent nous portera”, Bauhaus, “In the flat Field”, “Ed è quasi come essere felici” di Motta, “Lark” di Angel Olsen, Anna Von Hausswolff con “The Truth, The Glow, The Fall”, ultimamente sto ascoltando Gaia Morelli, Adrianne Lenker e Youth Lagoon.
“In memoria di” parla di donne, di unione, di sangue versato, di ribellione e di rivoluzione. Lamante è un progetto destinato a trovare tante nuove strade. Se potessi scegliere nel panorama con quali artisti incrociare la tua strada musicale, con chi collaboreresti e perché?
Penso di essere in una fase ancora immatura e primordiale per collaborare con altri artisti. Oltretutto non credo funzioni molto la faccenda, non per lo streaming, ma proprio per la musica. Le collaborazioni e i feat con gli approcci asettici e funzionali di adesso li trovo molto lontani dal mio modo di lavorare. Collaborare con qualcuno significa parlare di più di un noi che di un io. Deve scattare un amore vero, un legame profondo per condividere l’estro tuo con l’estro dell’altro, un affinata elettiva. Non mi tiro indietro se questo capita.
Con Claudia (Levante) è successo quando mi ha proposto di ricantare insieme a lei “Duri come me”. Poi con Alessandro in arte EMMA ho dato un pezzo di una mia canzone per l’intro di un suo brano. C’è un’altra collaborazione che ho fatto che chissà quando uscirà, di cui vado molto fiera. Più che soffermarmi su un artista con cui mi piacerebbe collaborare quindi, mi piacerebbe tanto in un futuro prossimo riuscire a trovare qualcuno che mi faccia uscire dal mio guscio creativo e che mi porti a scrivere con lui, una bella canzone a 4 mani che diventi una mano sola.
Ora la domanda volge al futuro. Lamante, musicalmente, dove vorrà essere tra dieci anni? In che luogo, in che modo, ma soprattutto si sarà perdonata del suo passato?
Spero che questa musica non mi abbandoni, che la necessità rimanga tale, più forte, ancora più sanguigna. In questo momento scrivo tantissimo ma niente di cantabile, scopro ultimamente che la scrittura è una congiunzione tra tante arti in cui sto mettendo la testa. Scrivere i miei videoclip con Nicolò Bassetto, il fatto che per esempio stiamo lavorando ad un corto dove sono sceneggiatrice, sto lavorando ad un libro. Ecco, fra 10 anni vorrei solo che la parola rimanesse, nelle forme in cui lei preferisce di più, e che il passato diventasse il mio di passato, da perdonare non so se succederà mai.