Un talento portentoso divorato dallo show business, dagli eccessi e dai traumi mai risolti. Se Amy Winehouse avesse chiesto, o meglio accettato, il giusto aiuto avrebbe 41 anni e canterebbe ancora come nessuna al mondo
14 41. Oggi voglio dare i numeri, i numeri di una storia di luci sul palco e di buio dentro. Il 14 settembre appena trascorso, Amy Winehouse avrebbe compiuto 41 anni e, conoscendola, si starebbe riprendendo or ora dai bagordi della festa. “Le persone pazze come me, non vivono a lungo ma vivono come vogliono” diceva lei, d’altronde.
Ma lei non era pazza. Era solo una donna con la poesia dentro e con una psiche fragile, poco o nient’affatto aiutata da se stessa e dagli altri e morta troppo presto. Morta ancora prima del 23 luglio 2011, giorno in cui fu trovata esanime nella sua casa di Camden.
È stata una cantautrice di grande talento, capace di mettere insieme soul, r&b, jazz, hip hop e blues in una scrittura musicale e testuale raffinata ma popolare. È stata la voce, The Voice, del nuovo millennio. È stata un genio, un’ubriacona, un fenomeno, una tossica, una rivelazione, una dipendente affettiva, un’icona, un’autolesionista, una star, una bulimica e anoressica, una diva, una borderline.
Sì, perché bisogna dare un nome alle cose, sia belle sia brutte, e accettare il dualismo. Non solo quello ovvio tra personaggio e persona ma quello più complesso, interno alla persona stessa.
Amy Winehouse, come ipotizzato da molti professionisti che hanno seguito da vicino o lontano le sue vicende, era probabilmente affetta dal disturbo borderline, un disturbo della personalità diagnosticabile attraverso criteri precisi. Vediamo se, conoscendo un po’ la sua storia, riusciamo a individuarli.
AMY WINEHOUSE ERA BORDERLINE?
Una persona borderline ha condotte impulsive rispetto all’uso di sostanze e al rapporto con il cibo: Amy ha fatto abuso di alcool e droghe pesanti e ha sofferto di anoressia e bulimia a partire dall’adolescenza, come recentemente confermato anche da suo fratello. Il disturbo può essere legato all’autolesionismo: le braccia di Amy tradivano cicatrici camuffate dai tatuaggi. Una persona borderline ha generalmente relazioni affettive intense e instabili e grandi problemi con le separazioni (paura dell’abbandono): il rapporto complesso con il padre e la storia tossica tra Amy Winehouse e il marito Blake Fielder-Civil raccontano questo e altro.
Ma “Ogni situazione di difficoltà è una canzone blues che attende di essere scritta“, diceva lei.
E il suo disagio l’ha messo per iscritto, senza mandarle a dire, in canzoni indimenticabili tra il primo e il secondo album, Frank e l’immortale Back to Black. In What is it about man (Frank), con una lucidità straordinaria, Amy riconduce il suo rapporto con gli uomini al trauma subito per l’abbandono del padre:
Understand, once he was a family man
So surely I would never, ever go through it firsthand
Emulate all the shit my mother hates
I can’t help but demonstrate my Freudian fate
My alibi for taking your guy
History repeats itself, it fails to die
And animal aggression is my downfall
I don’t care about what you got, I want it all”
In wake up alone (Back to Black) racconta le sue giornate di sofferenza e i suoi tentativi di compensazione “I stay up, clean the house, at least I’m not drinking / Run around just so I don’t have to think about thinking”.
Nella celeberrima Back to Black torna “a lutto” dopo una delle tante separazioni da Blake (l’assonanza tra Black e Blake è evidente: spesso Amy Winehouse durante i live sostituirà le due parole). In Tears dry on their own si asciuga le lacrime da sola pensando al suo continuo sacrificio sentimentale “I cannot play myself again I should just be my own best friend. Not fuck myself in the head with stupid men”. In uno dei suoi capolavori, Love is a losing game, scrive una poesia sulla fallacia dell’amore. Un gioco a perdere.
Tutti testi da cui trapela, mai celata, una carica empatica ed emotiva molto intensa, una sofferenza mal combattuta, una personalità forte ma instabile, una penna da letteratura (nel 2008, gli studenti di Cambridge durante l’esame di Practical Criticism hanno analizzato i testi di Love Is a losing game in paragone con poemi di Sir Walter Raleig).
Molti dei medici che l’hanno seguita hanno parlato di come Amy Winehouse rifiutasse le cure (“They tried to make me go to rehab and i said no, no, no!”): temeva che combattere e forse sconfiggere i suoi demoni potesse strapparle via proprio quella penna da poesia ( ne accennavo qui) e quella portentosa voce da icona del soul. Temeva che, guarendo, il suo pubblico avrebbe smesso di amarla. D’altronde, la logica divorante dello show-business le dimostrava ogni giorno che più palesava i suoi eccessi più il mondo la guardava. E lei voleva essere guardata, voleva essere ascoltata, voleva essere amata, voleva non essere abbandonata. Non di nuovo, non ancora una volta.
Nessuno le ha fatto davvero capire – né suo padre, né i suoi amori, né il suo pubblico – che l’avremmo amata lo stesso. Avremmo dovuto dirle “Prenditi una pausa, ritirati pure dalle scene se vuoi, torna a cantare nei jazz club che tanto amavi, togli pure quella parrucca pesante, non immolare la tua vita a una canzone, alla nostra approvazione”. Perché è vero che la sofferenza accende l’arte, ma è ancor più vero che troppa sofferenza la uccide.
Amy Winehouse è morta a 27 anni. La causa contingente fu l’alcool. In realtà è morta perché la sua anima non ha mai smesso di sanguinare, in solitudine.
I don’t ever wanna drink again
I just, ooh, I just need a friend
One reply on “Amy Winehouse: una vita borderline”
Buongiorno Ertilia,
i dolori dell’anima fanno crescere ma a volte, se non accettati, individuati e risolti, fanno ancora più male come nel caso dell’artista in commento.
Un caro saluto
T. B.