Fuori per Carosello Records l’album d’esordio del cantautore Michelangelo Vood, “Non c’è più tempo“. In note le mille sfaccettature di un’intera generazione. Ecco la nostra intervista
Negli scorsi giorni è arrivato sugli store digitali la tanto attesa prova discografica d’esordio di Michelangelo Vood, ottimo cantautore della scuderia di Carosello Records. Il disco, intitolato “Non c’è più tempo“, racchiude dieci tracce tra cui diversi singoli già rilasciati ad anticiparne la pubblicazione, come “Scemo“, “Due morsi” e “2000 anni“. La scrittura dell’artista, da sempre onesta, con mano dettata dal cuore sul foglio bianco, trova modo di esprimersi in questo album, in cui si passano in rassegna tutte le criticità e fragilità di una generazione, quella dei figli dei ’90, messa all’angolo del presente, costretta ad incassare senza vie di fuga.
Michelangelo Vood parla allo specchio, trova conforto e comprensione nelle sue stesse parole, che inevitabilmente diventano volano anche per altri coetanei e non solo, alla ricerca di esperienze comuni per trovare una quadra in una vita spesso incompleta, che va per una direzione propria a volte in maniera incontrollata. Michelangelo Vood arriva, con semplicità e spontaneità. A volte basta davvero poco. Lo abbiamo intervistato per addentrarci di più in quest’opera.
“Non c’è più tempo“, titolo del disco d’esordio di Michelangelo Vood ma in realtà una frase che ricorre tanto, troppo spesso all’indirizzo della generazione di cui, potremmo dire, ti fai portavoce con queste canzoni?
Me lo auguro. Quando ho scritto questo disco non ho troppo pensato all’essere generazionale. Ho messo giù le cose che sentivo in quel momento e stiamo parlando di un percorso lungo un paio di anni. Mi sono reso conto, parlando con i miei amici di ciò che stavo scrivendo, che quelle sensazioni che stato avvertendo mi accomunavano a loro. Ho capito che la nostra generazione, a cavallo tra l’epoca analogica e digitale, si trova in una condizione di incertezza rispetto a quale sia la direzione da intraprendere.
Da un lato abbiamo conservato gli insegnamenti dei nostri nonni e genitori, che appartenevano a un’epoca in cui a trent’anni avevano una casa, un lavoro, una famiglia. Stavano “bene”. Ci hanno allevato con l’idea, molto ingenua e tenera, che il loro percorso sarebbe stato il medesimo nostro. Poi però ci siamo resi conto, e tuttora loro se ne stanno accorgendo, che il mondo che ci avevano promesso non esiste più. È cambiato tutto e ciò crea tutta una serie di scompensi sociali, amorosi, di vita quotidiana di cui secondo me si parla poco. Ho cercato, in maniera spontanea e naturale, di parlarne nelle canzoni di questo disco.
Un discorso che non può non includere anche la discografia di oggi, che si muove in una direzione sempre più “teen”. Tu invece fai il tuo esordio discografico a trent’anni. Come ti poni rispetto a ciò?
Oggi, per chi fa musica, questa componente anagrafica deve essere presa in considerazione, e questo “Non c’è più tempo” per me era inteso anche in questo senso. “C’hai trent’anni e mo’ vuoi fa’ il disco?” e non ti nascondo che per diverso tempo quest’ansia l’ho sentita molto forte. Poi mi sono detto “Non puoi avvelenarti al punto che poi magari ti fai passare la voglia di dire quello che hai bisogno di dire”, perché poi non prendiamoci in giro, uno il disco deve farlo se ha qualcosa da dire.
Quello che da un lato mi rincuora è che da qualche mese sto insegnando a scuola. Di giorno insegno italiano e storia e di sera faccio il cantautore. Come un supereroe, fa molto ridere questa cosa. Io nemmeno volevo dirlo ai miei alunni, poi è capitato che ascoltassero le mie canzoni e che dopo venissero da me a dirmi che gli erano piaciute e che si rivedevano in alcune di esse. Stiamo parlando di ragazzi di ragazzi di 19 anni, provenienti da un quartiere periferico di Milano anche piuttosto particolare, che in qualche modo hanno trovato una connessione in me che sono il loro professore, ma comunque un artista che racconta “i fatti suoi”.
Ho riflettuto su come sia evidente la necessità di comunicazione e apertura da parte di tutti, anche tra chi ha ruoli ed età diverse. Quello che manca profondamente è la volontà di aprire un varco. Siamo tutti molto schermati, letteralmente, e si perde la voglia di capire che dall’altra parte c’è qualcuno che sta affrontando le tue stesse problematiche a trent’anni, a quaranta, a venti. Chiaro, i problemi non sono uguali per tutti, ma la radice probabilmente viene dalle stesse tematiche.
Ad oggi è piuttosto complesso identificare un’età in cui si possa essere davvero “quadrati”…
È una presa di coscienza e di posizione. Anche il solo fatto di dire “Sto andando, ma non so dove sto andando” è tosta, perché c’è questo istinto di sopravvivenza che ti porta ad essere sempre in divenire, però al tempo stesso ti guardi intorno e vedi un mondo in cui il terrore è l’ingrediente principale di tutto. Ti chiedi “ma io appartengo a questa roba qua?” e soprattutto “In che modo posso incidere nel mio piccolo?”. Questa responsabilità artistica, in questo caso, la sento forte. Adesso è anche una responsabilità sociale, insegnando a ragazzi più piccoli. Ci tengo molto.
Negli scorsi giorni hai accolto i tuoi studenti nello studio di registrazione per fargli ascoltare l’album. Cosa hai tratto dalle loro reazioni? Ciò di cui parli nei brani, anche se incentrato su un’altra generazione, s’è incrociato allo stesso modo con il loro vissuto?
Assolutamente sì, anche se declinato in una maniera differente, con una consapevolezza differente. È ovvio che a vent’anni vivi le cose e le dai per scontate o magari le accetti in maniera passiva. A trent’anni invece hai la capacità cognitiva di andare alla radice dei problemi. Quando ci siamo ritrovati in questo studio a Milano dove abbiamo registrato quasi tutto il disco, la cosa bella è stata fargli vedere cosa c’è dietro le quinte della vita di chi di giorno gli riempie la testa di Pascoli e D’Annunzio, e che poi è un ragazzo come loro, solo un po’ cresciuto, che sta ancora cercando di realizzare il suo sogno più grande.
Loro sono in un’età particolare, devono dare la maturità e ogni giorno li provoco chiedendogli se hanno deciso cosa fare da grandi, per poi trovarli completamente persi. Spero che il mio esempio sia stato un aiuto nel dire “credeteci”. I ragazzi di oggi sono cinici e disillusi, partono sconfitti su tutto e questa cosa mi fa stare malissimo. Sono anestetizzati, passano la sera a scrollare il cellulare invece di investire quel tempo, banalmente, nel fare l’amore, fare le cose che si fanno a vent’anni. Vivere qualcosa di reale. Mi rattrista che non se ne rendono conto. Il disco che ho fatto è molto triste, ma c’è un fondo di speranza che spero, nel mio piccolo, possa arrivare anche a loro.
A proposito della copertina dell’album invece, la trovo in simbiosi con la sensazione avvertita durante l’ascolto delle canzoni e dei testi: caos. Ci dici qualcosa in più rispetto a questo artwork?
È una copertina che abbiamo concepito con Alberto Ricchi e Simone Pellegrini, che sono i miei due angeli custodi che lavorano con me a tutti gli aspetti grafici, con le fotografie del grandissimo Alessandro Treves. Ci trovavamo in uno studio con un “limbo”, un backdrop bianchissimo. Volevamo mettere appunto in campo un senso di caos ma allo stesso tempo di evoluzione, che è come mi sento in questo momento. È stato molto divertente, abbiamo scattato in mille pose diverse, alcune delle quali assurde che magari potrebbero finire, un giorno, in una versione fisica dell’album. Sarebbe un sogno.
Mettere al mondo un’opera tanto personale spesso è un atto accompagnato dal desiderio che questa stessa opera possa sopravvivere all’autore e accompagnare tante altre persone nel tempo. A proposito di ciò, cosa vorresti rimanesse del Michelangelo Vood di questo primo disco?
Non vorrei che rimanessero cose di Michelangelo Vood, vorrei che rimanesse qualcosa di un ragazzo “x” che ha fatto una scelta ben precisa come tanti altri come lui. Lasciare la propria casa in provincia, la propria famiglia, la propria mamma che ti saluta alla stazione trattenendo a stento le lacrime. Spesso finiamo in città giganti, piene di persone ma che poi alla fine ti fa sentire sempre u po’ solo e la tua mamma ti manca sempre.
La storia di tantissimi ragazzi come me che, in tante declinazioni differenti, stanno lottando con le unghie e con i denti alla faccia di chi dice che non vogliamo lavorare. Sfiderei chiunque a fare una settimana della vita che facciamo noi, per raggiungere un qualcosa che “quelli di prima” hanno ottenuto più facilmente. Sto cercando di trasformare la musica in un mestiere e fa già ridere così, perché è come la storia dell’uno su mille che ce la fa, ma continuerò a farla sempre, a prescindere, perché è l’unica cosa che mi fa stare bene, che mi fa sentire felice.