Dalle urla di Thriller di Michael Jackson ai fantasmi di Ghostbusters di Ray Parker Jr. fino alle tragiche sventure dell’ungherese “Gloomy Sunday”: una playlist di canzoni “maledette” e leggendarie che hanno fatto la storia della musica, tra scandali, paure collettive e Halloween vibes.
L’iconica Thriller di Michael Jackson che riscrisse le regole del videoclip musicale, la rivoluzione dei Ghostbusters firmata da Ray Parker Jr., la rabbia dei gruppi religiosi e conservatori verso le più audaci proposte dei Rolling Stones e dei Doors: la storia ci ha mostrato in molte occasioni quanto una canzone possa seminare a tutti gli effetti… il panico. Con l’arrivo di Halloween, facciamo insieme una carrellata, passando in rassegna dieci di queste canzoni, rimaste nella storia per mille ragioni e controversie. Canzoni che nella vostra playlist di Halloween non potranno assolutamente mancare. Boo!
Thriller — Michael Jackson (1982/1983)
Non possiamo che partire dalla vera colonna portante – per quanto concerne la musica – della notte di Halloween: Thriller di Michael Jackson. Pezzo immortale, scritto da Rod Temperton e prodotto da Quincy Jones, con un iconico videoclio diretto da John Landis. Un cortometraggio horror pop con zombie, makeup cinematografico, e una narrazione visiva che ha ridefinito il videoclip pop come “mini-film”. Da sottolineare anche il cameo di Vincent Price – sua la voce parlata sul finale.
Il video nacque come progetto ambizioso — budget cinematografico, effetti speciali di Rick Baker e coreografia cinematografica — e si finanziò anche attraverso accordi con MTV/Showtime per i diritti del making-of. Vincent Price fu pagato con un compenso fisso (scelse la tariffa fissa anziché percentuali sul successo) e più tardi si lamentò con Michael Jackson per l’entità del compenso rispetto al successo planetario della canzone. Il video istituì lo standard per la produzione video pop e trasformò Thriller nell’archetipo estetico di Halloween nel linguaggio pop.
Oltre al dibattito culturale (alcuni gruppi religiosi e tv locali lamentarono la “macabra” esposizione nell’industria dell’intrattenimento), il progetto diede adito a discussioni e controversie su royalties e compensi per attori ospiti e tecnici — questioni che emersero dopo che il video era divenuto fenomeno globale.
Ghostbusters — Ray Parker Jr. (1984)
Spazio ora a un tema pop allegro – ma tematicamente legato al soprannaturale e ai fantasmi — che è diventato in fretta una colonna sonora stagionale: Ghostbusters di Ray Parker Jr, realizzata appositamente per il celebre film omonimo.
Il brano nacque in pochissimo tempo: Parker ricevette sequenze del film e compose il tema con la celebre coda “Who ya gonna call?”. Tuttavia, la hit fu al centro di una causa per presunto plagio da parte di Huey Lewis & the News, che sostennero che Parker avesse ripreso l’hook di I Want a New Drug. La controversia si risolse con un accordo extragiudiziale; la vicenda proseguì negli anni quando Lewis rivelò dettagli che, a loro volta, innescarono una seconda causa per violazione della clausola di riservatezza. Il caso è spesso citato come paradigma del “plagio hollywoodiano” e delle complesse pratiche d’uso di brani di riferimento (temp-tracks) in fase di montaggio.
Nonostante il contenzioso, la canzone è diventata un classico della cultura pop e un evergreen di Halloween: il suo retroscena legale non ha intaccato la capacità del brano di permeare feste, tv e trailer.
Helter Skelter — The Beatles (1968)
Furia sonora, aggressività chitarristica e vocali urlate rendono Helter Skelter dei Beatles un brano “minaccioso” per Halloween e non solo. Scritta da Paul McCartney (accreditata Lennon–McCartney), la canzone è stata registrata per l’inserimento all’interno del celebre White Album.
L’aspetto più rilevante della storia non è musicale ma di ricezione: Charles Manson reinterpretò Helter Skelter (e altri brani del White Album) come manifesto apocalittico che giustificasse una guerra razziale; il termine “Helter Skelter” divenne il nome che Manson attribuì alla sua visione di caos. Questa appropriazione distorse radicalmente la percezione pubblica della canzone e portò a una lunga associazione mediatica tra il brano e i delitti della “Family” — nonostante il significato originario fosse molto più prosaico (McCartney parlò a lungo dell’ispirazione: immagine della giostra, lettura critica del crollo/risalita).
Sympathy for the Devil — The Rolling Stones (1968)
Il narratore di Sympathy for the Devil dei Rolling Stones è il diavolo: il testo ripercorre orrori storici impersonando Satana — immaginario congeniale alla notte di Halloween. Realizzato dalla coppia Mick Jagger e Keith Richards, il brano è contenuto in Beggars Banquet e ha radici letterarie (passaggi ispirati a Il maestro e Margherita) e nacque come esercizio di “presa di parola in prima persona”: Jagger si mette nell’io del Male per raccontare la responsabilità collettiva degli eventi storici. La sua trasformazione da ballad a samba-rock fu frutto di sperimentazione in studio.
Il personaggio lirico e il titolo provocarono reazioni immediate: gruppi conservatori e alcune frange religiose interpretarono il pezzo come apologia di Satana; i Rolling Stones furono accusati di “esaltare il male”. Jagger e Richards spiegarono spesso che si trattava di una critica ironica alla natura umana, non di un invito alla devozione occulta. Il brano è divenuto, però, un simbolo delle letture moraliste che hanno perseguitato il rock.
The Number of the Beast — Iron Maiden (1982)
Restiamo sempre in tema rock, questa volta virando verso l’heavy metal, con The Number of the Beast degli Iron Maiden, titolo letterale tratto dall’Apocalisse e copertina/immaginario esoterico; brano emblema del metal “occulto” scritto dal bassista Steve Harris e prodotto da Martin Birch.
La genesi della canzone è narrativa: Harris fu ispirato da un film/horror e da un incubo riportato in studio; la legenda del conto da £666 recapitato al produttore Martin Birch (e altri “coincidenze”) alimentò il mito satanico intorno al disco, che venne travolto dalla satanic panic degli anni ’80: gruppi religiosi e politici lo indicarono come prova della “pericolosità” del metal; in alcuni casi vennero organizzati boicottaggi e campagne mediatiche.
Gli Iron Maiden hanno sempre respinto l’accusa di praticare satanismo: il pezzo è narrativo, non confessionale. Il caso è paradigmatico per capire la moral panic contro il rock/heavy metal in quegli anni.
Black Sabbath — Black Sabbath (1970)
Riff basato sul tritono (quella “quarta aumentata” un tempo chiamata “diavolo in musica”), atmosfera lugubre e testo visionario: Black Sabbath – dei Black Sabbath, frimata dalla band con produzione di Rodger Bain – fonda il sound del metal oscuro.
Il riff iniziale fu costruito per evocare tensione e paura; l’utilizzo del tritono, e le tematiche di riff e testi suggestivi, contribuirono a dare alla band l’immagine di “portatori di oscurità” — immagine in parte ricercata e in parte subita. La provenienza industriale di Birmingham e le didascalie su infortuni di Tony Iommi (che ne modificarono il modo di suonare) sono elementi che spiegano il carattere sonoro così denso e terso.
Come per gli Iron Maiden, la stampa conservatrice e certi gruppi religiosi etichettarono i Black Sabbath come “satanisti” (a volte a causa di fraintendimenti musicali e testuali). L’etichetta pubblico-religiosa costruì attorno al gruppo un alone quasi folklorico di demonizzazione, sfruttato poi dal marketing e dalla leggenda del rock.
I Put a Spell on You — Screamin’ Jay Hawkins (1956)
Melodia possente, urla, organo lugubre e — soprattutto — la teatralità macabra di Screamin’ Jay Hawkins che fece del brano una performance-rituale, senza considerare poi tutte le cover che sono state realizzate nel corso degli anni. Realizzata da Hawkins (anche se tra gli autori risulta pure Herb Slotkin), la prima versione della canzone era in formato ballad, poi trasformata in urlo teatrale nella sessione Okeh del 1956.
La leggenda vuole che il produttore ubriacò i musicisti per ottenere una performance “possente” e primordiale; Hawkins costruì un personaggio scenico — mantelli, coffins, effetti shock — che lo consegnò alla storia come pioniere dello “shock rock”. Il brano vendette molto pur essendo bandito da diverse radio per l’eccesso performativo. Il registro scandaloso dell’interpretazione (gemiti, grida, teatralità “cannibalistica” secondo i critici dell’epoca) portò a censure e a un dibattito sul confine tra espressione artistica e decenza pubblica. Nel tempo, tuttavia, il pezzo è diventato una colonna imprescindibile per tutti i party di Halloween e ha goduto di molteplici vite grazie alle reinterpretazioni di innumerevoli artisti.
Monster Mash — Bobby “Boris” Pickett (1962)
La novelty-song archetipica di Halloween per eccellenza: doppi sensi macabri, imitazioni di voci horror e un “dance-novelty” che celebra la parodia dell’orrore. Scritto da Bobby Pickett e Lenny Capizzi, con produzione firmata da Gary S. Paxton, il pezzo è stato registrato in poche ore, eppure ha trovato il modo di restare impresso nell’immaginario collettivo per decenni.
Il singolo fu inizialmente rifiutato dalle major. Pubblicato indipendentemente nel 1962, divenne primo in classifica ad ottobre dello stesso anno ma nonostante ciò la BBC inglese lo escluse temporaneamente dalle playlist per presunta “morbidità”. Pickett costruì la sua fortuna su un singolo che rimase però una fonte di reddito altalenante per l’autore, considerarto che in carriera non riuscì più a replicare tale successo. Potrà però sempre essergli riconosciuto di essere “padre” del brano-simbolo del kitsch horror di Halloween.
Gloomy Sunday — Rezső Seress (1933)
“Gloomy Sunday”, composta nel 1933 dal musicista ungherese Rezső Seress con testo di László Jávor, è passata alla storia come “la canzone del suicidio”. Il brano nasce in un periodo di profonda crisi personale e collettiva: l’Ungheria era travolta dalla depressione economica e dalle ferite della Prima guerra mondiale. Il testo racconta il dolore di chi ha perso la persona amata e medita di raggiungerla nella morte, in una “domenica triste” in cui ogni speranza sembra svanire.
Negli anni successivi alla sua uscita, i giornali diffusero la voce che decine di persone si fossero tolte la vita dopo aver ascoltato la canzone. Alcune radio europee arrivarono perfino a vietarne la trasmissione. La leggenda, amplificata dalla malinconia della musica e dal destino tragico del suo autore — che si suicidò nel 1968 — contribuì a rendere “Gloomy Sunday” un mito oscuro della cultura popolare, ad Halloween e non solo.
In realtà, non esistono prove che la canzone abbia davvero spinto qualcuno al suicidio: il suo effetto “maledetto” nacque più dal clima emotivo e sociale dell’epoca che da un potere intrinseco del brano. Oggi è considerata una struggente ballata sull’amore e la disperazione, e la versione di Billie Holiday del 1941 ne ha fissato per sempre l’aura di tristezza elegante e senza tempo.
Pet Sematary — Ramones (1989)
Scritta per l’omonimo film diretto da Mary Lambert, e tratto dal romanzo di Stephen King, Pet Sematary dei Ramones – scritta da Dee Dee Ramone e Daniel Rey, di cui è anche il produttore insieme a Jean Beauvoir – è una ballata punk che affronta la morte, la perdita e la resurrezione in chiave malinconica — perfetta per una playlist di Halloween.
Leggenda confermata dalla band: Stephen King, fan dei Ramones, invitò Dee Dee nella sua casa e gli consegnò il romanzo; Dee Dee (si dice) tornò dal seminterrato con il testo della canzone pronto in meno di un’ora. Il pezzo divenne uno dei più radiofonici dei Ramones, nonché il loro maggior successo commerciale in termini di airplay negli USA.




