Andiamo alla scoperta di Kormorano, artista che ha scelto il dialetto terracinese come lingua dell’anima, raccontando come l’inverno di Ventotene, il silenzio, il mare e la fine di un amore abbiano dato vita a “Nove e 15”. Tra tradizione e sperimentazione, reggae, Mediterraneo e politica, emerge una musica che è memoria e rivoluzione emotiva.

Un’opera nata su una scogliera di Ventotene, tra silenzio, mare e identità ferita. Parliamo di Nove e 15, album con cui fa il suo esordio ufficiale Kormorano. Abbiamo approfondito la conoscenza del cantautore, per scoprire di più dietro la scelta del dialetto terracinese – lingua dei nonni, dei ricordi e delle cicatrici – per dare voce a emozioni che l’italiano non riusciva a contenere. Un racconto a tu per tu con Kormorano che si snoda tra l’isolamento che diventa salvezza, la musica come ponte tra Africa, Sud America e Mediterraneo, e il coraggio di fare politica senza slogan.

Copertina Nove e 15
“Nove e 15”, l’album d’esordio di Kormorano

Un’opera d’esordio, questa, che è fortemente radicata nel Terracinese, un dialetto poco usato nella musica contemporanea. Cosa ti ha spinto a scegliere questa lingua come strumento di comunicazione emotiva e culturale e qual è stato il processo che ti ha portato a sceglierlo, anche a costo di risultare poco comprensibile ad una grande fetta di pubblico?

In un video di molti anni fa, Pino Daniele venne insultato in una città del nord con la frase: “Impara a parlare!”. Lui rispose con calma: “L’importante è il sentimento”. Il terracinese è la lingua dei miei nonni. Con i Chicken Production abbiamo registrato quattro album… so bene che potrebbe essere percepita come un limite, ma so anche che è un modo viscerale di comunicare. Mi fa ben sperare vedere La Niña ottenere un successo incredibile anche oltre i confini italiani; sono felicissimo per lei e per Alfredo, suo compagno e produttore. La lingua dei ricordi, delle emozioni più intense.

Hai detto che “Nove e 15” nasce dopo la fine di una relazione, durante un inverno a Ventotene. In che modo l’isolamento e il paesaggio dell’isola hanno modellato il tono e la struttura di queste canzoni?

Ho scritto questo disco in una casa affacciata su una scogliera… la cosa più preziosa che avevo era quel finestrone. Non ho mai pulito le finestre a casa mia… ma lì, quei vetri li curavo quasi in modo maniacale: dovevo vedere il mare. Il mare è come il fuoco: ti ipnotizza. Come la TV guardata senza interesse, ti placa la rabbia, le nevrosi, i dispiaceri. Ho sempre detto di aver perso l’amore della mia vita… ma in realtà avevo perso me stesso.

Ero diventato una persona brutta, intrappolata in un’illusione, avevo perso il focus. Il silenzio, la calma dell’isola, la solitudine, i tramonti… alla fine devo ringraziarla: è grazie a tutto questo che ho scritto il disco più bello della mia vita (finora!).

Kormorano
Kormorano

Il disco mescola reggae, sonorità mediterranee, cantautorato ed elettronica, con richiami africani e sudamericani. Come si fa ad integrare delle tradizioni così diverse, come queste, senza perdere di vista una certa coerenza sia nella narrazione che nell’emotività dei brani?

Basta superare la visione occidentale della musica. La musica è spirito, taumaturgia, condivisione, e una continua ricerca delle origini. Basta pensare che le suddivisioni ritmiche subsahariane le ritroviamo in Colombia e in tutto il Sud America: la musica viaggiava attraverso l’acqua… attraverso gli schiavi. Lo stesso succede nel Mediterraneo: il fado portoghese è padre della canzone italiana, mentre le linee di Uz e Bouzouki del quadrante sud-orientale hanno plasmato i riff moderni di gran parte del pop europeo. Forse dipende dal fatto che questi sono stati i miei ascolti di sempre: casa mia è sempre stata un porto di mare per la musica.

Alcune tracce affrontano questioni sociali complesse, come l’Agro Pontino o il dramma dei migranti. Dunque, bilanciare la dimensione politica con quella intimistica in musica, senza che l’una schiacci l’altra, si può?

Credo che fare musica sia una grande arma politica. Smuove coscienze, fa pensare, ed è legata a doppio filo con la vita sociale di tutti i giorni – talmente tanto da rischiare, a volte, di perdere valore. Forse non siamo più abituati al fatto che musicisti e cantanti siano gli anticorpi della società. Negli anni ’70, i musicisti erano fortemente esposti nella vita politico-sociale. Oggi, invece, bisogna fare attenzione a come si parla, perché tutto gira intorno ai soldi delle major e dei management.

Molti artisti mainstream sono un po’ timidi quando dovrebbero prendere posizioni sociali importanti… e, come sempre, a vincere è il denaro. Io non ho paura di fare politica nelle mie canzoni, ma lo faccio solo quando sento di avere qualcosa di davvero significativo da dire.

“Traumi” di Kormorano

Parli del silenzio come “custode, alleato e cura”. Nella composizione e nell’arrangiamento, come riesci a trasformare il silenzio in uno spazio musicale vivo e ricco?

Il mio maestro di batteria, Beppe, mi diceva sempre: “Bisogna suonare le pause!”. Credo che una canzone debba funzionare già nella sua forma più essenziale, “a cappella”, con il niente intorno, come una filastrocca o una barzelletta. La mente riempie il vuoto, trae le note dal silenzio… sono già lì, dentro la canzone, come il marmo per Michelangelo, o come le intuizioni e le antenne di Rick Rubin. Io non faccio nulla: le acchiappo, e basta.

Hai coinvolto artisti come FiloQ, Lucchesi e Forelock e affidato il master a Giancane. Qual è stato l’apporto più significativo di queste collaborazioni nella definizione del sound finale di questo lavoro?

Hai citato quattro grandi amici… per FiloQ vale la regola della “vibe al primo incontro”. Avevamo già collaborato per l’Istituto Italiano di Cumbia, ma non ci eravamo mai conosciuti di persona. Il vero punto di incontro è stata Ventotene, durante l’Open Festival. Lucchesi e Forelock sono amici di lunga data. Con Lucca c’è un gioco fatto di finti litigi, ma tra noi c’è una grande affinità sonora e melodica. Forelock, invece, ha la voce più bella che esista: una potenza e una capacità incredibili. È senza dubbio il mio cantante reggae preferito. Giancane, oltre a essere un grande fonico e cantautore, è mio fratello… e spero che questo basti come spiegazione.

“Anopheles” di Kormorano e FiloQ

Molte tracce contengono storie nate davanti al mare, con suggestioni poetiche e riflessioni personali. Qual è stato il momento più catartico durante la scrittura di questi brani?

Il faro di Ischia, il giorno dopo aver salutato la mia ex… rendersi conto di aver chiuso una porta, di dover affrontare di nuovo cambiamenti strutturali nella vita quotidiana… perché, fondamentalmente, non c’era più posto per me nella vita della persona che amavo. E lui, là, impassibile di fronte al maltempo, con la sua cadenza sempre uguale, segnala a tutte le navi la posizione. Acqua, vento, onde: nulla lo muove. Lui sì che sapeva essere diretto, chiaro… la scienza stessa della comunicazione.

Pur confrontandoti con la canzone napoletana e artisti come Liberato, il tuo linguaggio rimane personale e territoriale. Come riesci a rispettare la tradizione che tu stesso promuovi e “proteggi”, senza essere al tempo stesso vincolato da essa?

Non mi pongo limiti: seguo il flusso, purché suoni bene! L’importante è restare credibili.

Foto di Arianna Barone

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Ideatore e fondatore di 4quarti Magazine. Scrittore e giornalista salernitano iscritto all’Ordine dei Giornalisti della Campania. A dicembre 2023 pubblica "Nudo", il suo primo libro. «Colleziono compulsivamente dischi e mi piace scrivere con la musica ad alto volume».

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